La poesia delle donne

“La componente matricentrica è tipica della letteratura sarda:

trascurando questa verità non si capisce granché”

Bronzetto "la madre dell'ucciso"

All’alba del tempo lungo era la poesia femminile. Esisteva e resiste nei penetrali della memoria profonda del popolo sardo. Non è un ricordo nostalgico: la poesia delle donne è viva e forte nei paesi dell’Isola interiore specie nei mutos, i canti spontanei di genesi lontana. Nella Terra Mater di Sardegna la donna detiene da tempi remoti il governo poetico dei punti fermi dell’esistenza umana: nascite, nozze, funerali. È un potere avvolto in una coltre insondabile tra mistero e fatalismo: dalla culla al sepolcro quella forza arcana entra in azione, affidata in esclusiva alla potestà primigenia.

Secondo la finissima psichiatra Nereide Rudas, ispirata creatrice di un libro-gioiello sulla patria del cuore, L’isola dei coralli, “la componente matricentrica è tipica della letteratura sarda: trascurando questa verità non si capisce granché”.

Sul versante del gaudio la vena poetica femminile si libra alta nella ninna-nanna in settenari a rima baciata. Come generatrici di vita, le donne hanno creato i canti per i bambini: esercizio diuturno di madri, nonne e zie nelle prime stagioni dei nuovi nati. Per il lato buio del destino, i funerali sono il calvario del dono poetico femminile nel melisma agro del canto funebre scandito nel medesimo metro del verso settenario.

Ma la poesia orale femminile vestiva a festa perfino l’ordinario quotidiano: negli orti in tutte le fasi delle coltivazioni, sulle sponde dei fiumi durante la lavatura dei panni, nelle pause di mietiture e vendemmie, nella creazione di filastrocche nelle case e nei vicoli dei paesi.

A Orune le atitadoras sono chiamate ancora oggi sas meres de su prantu (le padrone del pianto). In altre zone della Sardegna (Mandrolisai e Barbagia di Belvì soprattutto) si coltivano moduli poetico-musicali come i mutos in versi ottonari e -nei Campidani- i mutetus a trallallera e l’andimironnai. Il paese concretamente più attivo sul fronte di questa tradizione è Meana Sardo. Si va dai canti a gestione femminile esclusiva, nìnnidu e atìtidu, a su muteto di vario tema e a sa musìca (serenata).

Nella storia del canto improvvisato sui palchi -nicchia apparentemente esclusiva del pianeta maschile- rifulgono due donne il cui nome resta vivo nella memoria popolare: Maria Farina di Osilo (figlia d’arte: suo padre Antoni era una delle bandiere della prima generazione di cantori) e Chiarina Porcheddu di Ossi, (allieva di Antonandria Cucca, nota anche come autrice di cantones sulla cronaca tragica dell’Isola, nella tradizione dei cantastorie).

Nella poesia meditata le donne ravvivano la fiaccola inestinguibile delle antenate. Nei concorsi letterari hanno un ruolo almeno pari a quello dei colleghi maschi nel ruolo di concorrenti e in quello di componenti delle giurie.

Sulla sua vocazione alla poesia Remundu Piras scrisse uno splendido sonetto, Ispiju lìmpiu (Specchio nitido). In quei versi il grande poeta celebra il rituale rinverdito da sua mamma Dionigia Galleri alla fonte di Su Paradisu, detta Sa funtana de sa poesia. Portando il bambino al battesimo laico e bagnandogli le labbra con l’acqua sacra, la madre del futuro cantore affidava il bimbo alla protezione dei numi tutelari della creatività poetica, figure arcane di difesa dai mali del mondo. Per Dionigia le divinità erano sas musas d’Elico    na del dio Apollo, le fanciulle divine invocate dai poeti epici greci -da Omero ad Apollonio Rodio- e dai cantori severi di Villanova Monteleone, destinati a essere le guide di suo figlio nei primi passi del radioso percorso nel campo della poesia orale. Michelangelo Pira ha scritto su Ichnusa che Dionigia Galleri non è soltanto la mamma di Remundu Piras ma di noi tutti perché è il simbolo dello spirito poetico delle lingue.

Questo il sonetto:

 

Mama da sende in fascas m’at passadu

in sa funtana de Su Paradisu:

in cuss’ispiju lìmpiu e pretzisu

s’umbra mia innotzente apo miradu.

Issa osservende a mie at iscanzadu

de orgogliu maternu unu sorrisu:

imberghinde sa manu ’e upu azisu

de abba m’at sas laras umidadu.

Difatis mi nariat calchi ’olta:

“S’’essis poeta tue est proa mia

ca a sa funtana t’apo jutu apolta”.

Ma a m’intender cantende in poesia

non nd’at tentu fortuna ca est molta

cando deo sett’annos solu aia.

Traduzione: Mia madre quand’ero in fasce mi ha portato/ alla fonte di Su Paradisu:/ in quello specchio nitido e fedele/ ho visto la mia ombra ingenua./ Guardandomi, ha accennato/ un sorriso di orgoglio materno:/ immergendo la mano a guisa di boccale/ mi ha inumidito le labbra con l’acqua./ Infatti talvolta mi diceva:/ “Se tu diventerai poeta il merito è mio/ perché ti ho portato apposta alla fontana”./ Ma di sentirmi improvvisare versi/ non ha avuto fortuna, essendo morta/ quando io avevo soltanto sette anni. ©Domus de Janas Editore